Il diritto di Patronato

 

Il diritto di patronato, regolato dal Codice Benedettino del 27 maggio 1917 è definito “l’insieme dei privilegi che uniti a determinati oneri, competono per concessione della Chiesa a cattolici fondatori di una chiesa, di una cappella o di un beneficio, o anche a coloro che ne sono gli aventi causa”. Il diritto di patronato si acquista per fondazione (cessione gratuita del fondo ove si edifica la chiesa), edificazione o dotazione della chiesa. In tutti i casi si tratta di un atto di liberalità nei confronti della Chiesa, che acquista tali beni. I privilegi dei patroni sono:
a) di presentare al vescovo il candidato all’ufficio di rettore per la nomina
b) di ottenere, in caso di bisogno, gli alimenti sui redditi beneficiali eccedenti quelli che servono per la chiesa (per quanto attiene al giuspatronato di natura beneficiale)
c) di avere, secondo la tradizione del luogo, lo stemma di famiglia e un posto d’onore nella cappella.
Nella dottrina sullo iuspatronatus è costante proprio l’avvertimento di non confondere il diritto di patronato con il diritto di proprietà, ricordando che tale confusione si realizzò solo per un certo periodo di tempo, nel medioevo, “in quanto i fondatori privati acquistavano ampi diritti per riguardo alle loro chiese, che man mano assurgevano ad una vera proprietà delle chiese stesse, considerate come parte integrante del loro patrimonio privato. Questa evoluzione si compie sotto la influenza dei diritti germanici e appunto la dottrina canonistica tedesca designò queste chiese con il termine di Eigenkirken, cioè chiese private o dominicali, soggette cioè alla piena proprietà dei fondatori privati”. Di qui la reazione della Chiesa che ha inizio sin dall’epoca di Carlo Magno: Alessandro III (1159-1181) stabilì che lo ius patronatus dovesse considerarsi come uno ius spirituali annexum. Di qui la negazione del diritto di proprietà dei proprietari dei fondi sulle chiese, la nullità delle nomine dei chierici fatte dai proprietari. Si riaffermava così l’autorità del vescovo, cui i patroni avevano semplicemente il diritto di presentare il chierico. Il Concilio di Trento stabilì che per l’avvenire il patronato potesse acquistarsi solo con una fondazione e non ex gratia. Il diritto di patronato non comporta quindi per sé la proprietà della chiesa o cappella, anzi, di regola, si distingue dal diritto di proprietà dell’edificio sacro che, secondo l’ordinamento canonico, compete all’ente ecclesiastico proprietario. Il diritto di patronato cessa, a norma del can. 1470, se la Santa Sede abbia revocato il diritto di patronato. Paolo VI con il motu proprio “Ecclesiae Sanctae” del 6 agosto 1966 ha disposto: “Sono abrogati i privilegi non onerosi, eventualmente concessi fino ad oggi a persone fisiche o morali, che comportano un diritto di elezione, di nomina o di presentazione per qualsiasi ufficio o beneficio non concistoriale vacante”. E quindi nel § 2: “Se però, in questa materia, diritti e privilegi sono stati stabiliti attraverso una convenzione tra la Sede Apostolica e una nazione, oppure attraverso un contratto intervenuto con persone fisiche o morali, sarà necessario trattare della loro cessazione con gli interessati”. E’ stato così soppresso il diritto di patronato, secondo la dottrina prevalente, ed infatti il nuovo Codice del 1983 non ne fa più menzione. La possibilità di avere un posto d’onore in chiesa è stata poi eliminata con la riforma liturgica. Anche a voler sostenere la tesi che Paolo VI avesse inteso abrogare soltanto il diritto di presentazione e non il diritto di patronato in quanto tale, resterebbe oggi soltanto il privilegio di avere nella cappella lo stemma di famiglia.

A cura di Mons. Agostino De Angelis, Prelato Uditore di Rota

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